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È il terreno su cui si fonda niente meno che il processo creativo. E non si tratta di un processo creativo qualunque, ma di quello che sta alla base della cura.

Ho trascorso gli ultimi ventidue anni lavorando come psicoterapeuta. La prima formazione ricevuta a suo tempo si ispirava significativamente alla psicologia del profondo. Il che significa che, sin dagli inizi, fra le «regole di ingaggio» avevo colto almeno una cosa: che avrei trascorso ore e ore ad ascoltare molto molto, e parlare poco poco (o quasi niente). Tutto ciò implicava anche un'altra cosa, apparentemente ovvia, ma... mica tanto: che avrei dovuto tacere. Dico «ovvia, ma mica tanto», perché l'importanza dell'ascolto è diffusamente proclamata anche da qualcuno che non riuscirebbe a tacere nemmeno se gli blindassero la bocca.

Ovviamente, tacere non è ancora ascoltare. Allo stesso tempo, però, si tratta di una condizione necessaria. Necessaria ma non sufficiente, certo; ma, comunque, necessaria!

Ad ogni buon conto, dopo aver capito che avrei trascorso un bel po' di tempo a tacere, pensavo di aver capito anche che ascoltare significasse mettersi lì e... ascoltare, appunto. Le molte parodie della psicoanalisi che la cinematografia ci ha regalato, aggiungono a quell'ascolto anche alcune cosette divertenti, escogitate soprattutto con l'obiettivo di far credere al paziente che mentre lui parla, l'analista fa tutt'altro (ascolta la musica con gli auricolari, o sgranocchia un paio di biscotti, o è entrato in coma...!).

Non mi sarei mai permesso trasgressioni del genere, sia chiaro – escludendo il coma che palesemente poco vi rientra –, eppure, probabilmente condividevo implicitamente quella persuasione ridicolizzata dal cinema: che l'ascolto significhi, quasi «per definizione», non fare niente. Semplicemente: «stare lì e tacere». E a quel punto, se il paziente materialmente non vede il proprio analista – come nella psicoanalisi classica –, giacché questi è seduto dietro di lui, a maggior ragione l'ascolto non comporta «di suo» nessuna attività. Giustamente si obietterà che l'analista sta attento e prende nota. Sì, certo, ma in tal caso l'ascolto sarebbe a servizio del prendere nota. Quest'ultima sarebbe la vera attività e, in tal senso, l'ascolto sarebbe solo la condizione posta a favorirla, non una attività in se stessa.

Mi sbagliavo. Le cose non stanno così.

Con il trascorrere del tempo, mi veniva incontro un'esperienza diversa, con la quale non avevo fatto i conti e che nemmeno ricordavo di avere letto sui libri. Lavorando soprattutto con religiosi, seminaristi, diaconi e sacerdoti, ogni tanto – senza esagerare, per non rischiare di parlare troppo, appunto – lasciavo cadere qualche frase, breve o brevissima, presa dalla Scrittura, spesso da san Paolo, più spesso dai vangeli. Scelgo come espressione quella di «lasciar cadere» perché non si trattava, da parte mia, di una scelta «pensata» previamente, decisa strategicamente, come talora si decide (o si tiene pronta, aspettando il momento buono per «piazzarla») quella che in psicoterapia, storpiando un vocabolo inglese, chiamiamo confrontazione. Questa corrisponde, più o meno, al tentativo di richiamare il paziente a tutte quelle cose che lui stesso, in momenti diversi, è andato via via segnalando e che ora, oltre alla consapevolezza, esigono un atto di responsabilità da parte sua. Perché senza etica, difficilmente c'è cura.

Il ricorso a quelle frasi bibliche aveva un che di sorprendente. Anzi: doppiamente sorprendente.

In primo luogo, era sorprendente l'effetto che avevano sul paziente. Si badi bene: quando parlo di effetto, mi riferisco concretissimamente all'effetto terapeutico. Quelle parole si rivelavano efficaci non in un senso generico, ma proprio rispetto al percorso di cura. L'effetto era ancora più sorprendente, se consideriamo che si trattava di citazioni bibliche note e perfino arcinote. La sensazione, assolutamente netta, è che in quel momento esse si presentassero e agissero alla stregua di affermazioni pressoché inedite.

In secondo luogo, e per quanto ciò possa apparire improbabile, non potevo dire, almeno non del tutto, di essere stato io a scegliere di dirle. Certo: nei fatti, ero stato io a dire al paziente «In questo momento mi viene in mente quella affermazione di Gesù che, nel Vangelo di Giovanni, ad un certo punto dice...» questo o quello. Eppure, era proprio in quel «mi viene in mente» che l'esperienza personalissima che facevo era quella di una scelta a cui contribuivamo entrambi: io, ma pure il paziente. E non un paziente generico, ma quel paziente, in quel preciso momento della sua vita, e in quel preciso momento del nostro percorso di cura.

La circostanza e, non secondariamente, il fatto che si ripetesse, mi avevano colpito e incuriosito al punto da condurmi ad approfondire un filone di studi di cui conoscevo a mala pena l'etichetta e che, invece, mi si sarebbe aperto dinanzi come un paesaggio imponente e affascinante: quello della metafora, del suo utilizzo nel Vangelo come in psicoterapia (che coincidenza: salvezza e salute...!), della sua efficacia e della sua creazione. Già, perché la creazione della singola metafora nel corso di un colloquio terapeutico non è a carico del terapeuta, ma è il prodotto dell'interazione fra quest'ultimo e il paziente. Detto in altro modo: la metafora è un evento «co-creato» dal terapeuta, dal paziente e dalla loro interazione. Questo aiuta a comprendere come mai non esista una espressione (metaforica) che sia previamente efficace (dal punto di vista terapeutico), cioè indipendentemente dal «chi» e dal «qui ed ora».  

L'ascolto è più dell'ascolto. L'ascolto è un dinamismo attivo e non meramente passivo o recettivo, sul quale si fonda niente meno che il processo creativo. E non si tratta di un processo creativo qualunque, ma di quello che sta alla base della cura, da intendersi in questo caso nei molti sensi possibili dell'espressione. Ci si prende cura non solo quando si opera professionalmente nel campo della cura in senso stretto, ma anche quando si offrono parole buone che consolano, sostengono, indirizzano, consigliano. L'ascolto che sostiene il processo creativo della cura, coniando di volta in volta simboli e metafore che provengono, né soltanto da chi parla, né soltanto da chi ascolta, ma da tutti e due e dalla loro interazione, è un'attività concreta e perfino molto faticosa, proprio perché non corrisponde alla mera passività. Se l'ascolto corrispondesse ad un semplice atteggiamento di recettività – che comunque non è da buttare –, dopo avere ascoltato potrei sentirmi «stufo», «appesantito», perfino «provato». Sì, potrei dire «Sono stanco di ascoltare», ma quelle parole si discosterebbero in poco da quelle di colui che dicesse «Sono stanco di stare seduto». La stanchezza di chi non fa niente sarà pure stanchezza, ma poco ha a che vedere con quella di chi ha camminato per molti chilometri. Ecco: l'ascolto attivo assomiglia a quest'ultima, non alla prima.

La psicologia, con l'apporto significativo delle neuroscienze, riconosce oggi la capacità delle nostre menti di incontrarsi. In questo senso, perciò, l'ascolto è incontrare un'altra persona dentro se stessi, ma pure andare a incontrare un'altra persona dentro se stessa. La sorpresa delle parole (nei simboli, nelle metafore) che si lasciano plasmare da un processo creativo che è a carico di tutti gli attori della relazione interpersonale e non solo di chi materialmente le dice, già dovrebbe farci riflettere sul modo profondissimo in cui noi, gli esseri umani, interagiamo e comunichiamo.

Ma c'è ancora di più: le menti si incontrano anche senza le parole.

Talora ci succede di stare presso un'altra persona e semplicemente tacere ma... ascoltandola veramente, profondamente. D'altra parte, di fronte a certe cose le parole non ne vogliono sapere di venir fuori, oppure accade che proprio non ci siano. E piuttosto che scadere nel consiglio standard, nella pet-phrase che potrebbe andar bene per tutte le situazioni, non dire nulla, qualche volta, probabilmente, è perfino la scelta migliore.

Il fatto di tacere e ascoltare, però, produce un effetto inaspettato: la persona con cui abbiamo taciuto e ascoltato e poi ancora taciuto, ci ringrazia..., ma di cosa? Di essere rimasti lì? Sì, certo, anche..., ma è ancora poco. L'incontro delle menti avviene anche senza giungere a parlarsi: nel silenzio delle parole, le emozioni reciprocamente si comunicano, il dolore passa da te a me, e poi da me a te ma alleggerito, reso meno angosciante; e passano pure la gioia, la speranza, la solidarietà, l'affetto...

A conferma di ciò che nell'ascolto ho comunicato, consegnato, sta la mia stanchezza. Che è stanchezza vera, come quella di chi ha camminato e perfino corso a lungo.

Nei comportamenti si può fingere e si può recitare la parte di quelli compassionevoli.

Alla mente, però, non si può chiedere di fingere. L'ascolto che cura, sollecita, perciò, a una conversione profonda, finanche dei luoghi più riposti della nostra personalità. Non la perfezione umana sarà richiesta – giacché sarebbe impossibile –, ma una ricerca continua del bene fin nelle pieghe della nostra umanità. Quella ricerca può santificare le nostre menti perché le apre all'azione dello Spirito e restituisce loro il potere di annunciare il bene attraverso l'ascolto, con o senza parole da dire.

Stefano Guarinelli
Psicologo e psicoterapeuta, docente di Psicologia presso il Seminario Arcivescovile di Milano

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